DI FRANCESCA LOVATELLI CAETANI
Sino a pochi giorni fa l’ho sempre visto come uno dei miei vicedirettori, ma oggi lo intervisto, per il suo libro “Professione Brand Journalist - Perché le aziende non possono più farne a meno" (ed. Ledizioni) disponibile sugli scaffali, fisici e virtuali.
Lorenzo Zacchetti, vicedirettore di Affaritaliani, il primo quotidiano digitale (online dal 1996), con una narrazione fruibile ma al contempo completa spiega le modalità e i vantaggi di questa trasformazione che trova in storytelling, autorevolezza e credibilità le parole chiave per addivenire sé stessa medium o, comunemente, media.
Prima di tutto facciamo chiarezza. Cos’è il brand journalism?
“Il brand journalism consiste nell’uso delle tecniche tipiche del giornalismo per fare comunicazione d’impresa, in un rapporto onesto verso il lettore. L’azienda è il committente e lo si dichiara in modo esplicito, mettendo la professionalità del giornalista della testata a disposizione dell’azienda”- dice Lorenzo Zacchetti
“L’uso delle tecniche giornalistiche incide comporta che non si magnifichi il prodotto, qualunque esso sia, come accade in pubblicità; nel brand journalism raccontiamo la verità e anche questo fa la differenza. Si valutano gli aspetti più notiziabili, costruendo una comunicazione trasparente, corretta e deontologicamente vera e onesta. Il brand journalist, poi, non è una figura esterna ed estranea, ma passa del tempo nell’azienda, dove nulla è scontato.
Le aziende stesse, spesso, non hanno chiari i loro punti di forza
Per fare un esempio pratico, molte aziende, recentemente hanno sponsorizzato il Pride, proprio perché devono promuovere e comunicare valori.
Il brand journalism in questa fase aiutano le aziende a capire i temi sui quali puntare, in relazione alla sensibilità del proprio target, e con quali modalità farlo. Il brand journalism oggi non è soltanto una delle più efficaci leve di comunicazione, ma di fatto rappresenta la contemporaneità della comunicazione”
Quindi il brand journalist è anche uno stratega?
“Sì, e puo’ e deve anche dire no alle aziende committenti, se fa bene il suo lavoro.
Non si basa solo su logiche di budget, deve essere trasparente verso gli stakeholder. Prima o poi, se non si ha una strategia, l’azienda cade in errori che possono essere anche molto dannosi, come successo a Barilla dopo la famosa intervista del suo titolare a ‘La Zanzara’. Ci vogliono scelte mirate, conoscere l’ambiente in cui ci si muove, la società del momento, le cause da sposare. Sì, perché l’inganno verso il pubblico prima o poi si paga
Ogni azienda ha dei valori da raccontare, ma serve qualcuno capace di individuarli e renderli fruibili”
Come ci si prepara?
“Le tecniche sono quelle del giornalismo. Studiare un caso e raccontarlo in un’inchiesta è la stessa cosa che facciamo con un brand, anche se ovviamente il contesto è diverso”
Questo cambierà la struttura di un giornale?
“Ad affaritaliani.it gli ambiti sono ben distinti. La redazione fa solo giornalismo tradizionale, mentre un gruppo apposito si occupa di brand journalism. Ovviamente i due team dialogano, ma nel rispetto delle reciproche prerogrative. Nel futuro vedo aziende che sempre più spesso porteranno a bordo dei giornalisti e magari produrranno dei corporate media. E’ inevitabile nella fase della disintermediazione, nella quale tutti parlano con tutti: le aziende parlano con il pubblico e hanno bisogno di brand journalist che parlino con il pubblico e consolidino la brand identity. Anche fare squadra è importante per un brand journalist, che deve dialogare con il social media manager, che è un canale ulteriore di intermediazione con il pubblico, così come con il marketing e la comunicazione. A mio avviso, soprattutto a livello di corporate media, se un’azienda deve comunicare direttamente tanto vale che abbia un suo giornale creato da zero o rilevarne uno già esistente, visto che molti (soprattutto cartacei) sono in chiara difficoltà”.
Come vedi il futuro del cartaceo?
“Siamo giunti alla fine di un’era; resterà una nicchia. I cartacei sono oggetti che hanno il loro fascino fisico, soprattutto per quanto riguarda i settori iperverticali, a scopo di collezionismo, come trimestrali mensili, etc. con contenuti sempre più evergreen.
Il quotidiano ha notizie già vecchie I media, anche digitali, comunque fanno fatica a resistere. Non mi stupirebbe se le aziende investissero nell’editoria, acquisendo testate già affermate e usassero la comunicazione per veicolare altri valori. In fondo, in Italia la maggior parte degli editori sono ‘impuri’, come si dice di chi ha anche interessi in altri campi. Un caso su tutti è l’Espresso rilevato da Jervolino, che è un editore ma con attività anche in altri campi. Le aziende sono interlocutori nella vita pubblica al di là di cio’ che fanno.I prodotti si equivalgono, non è certo la qualità a fare differenze, ma i valori. Per questo devono comunicare anche al di fuori dei rispettivi ambiti”.
E a livello televisivo?
“Il brand journalism è in evoluzione in tutte le sue declinazioni, dalla radio alla tv, dalla carta, a internet e anche con i libri. Spesso mi viene proposto da persone (che sono comunque un brand) di aiutarle a produrre dei libri per connotarsi in un determinato e emergere nel settore. Il racconto personale funziona: Giovanni Rana è una case history interessante, perché è stato tra i primi imprenditori ad apparire negli spot della propria azienda. Comunicare se stessi equivale alla propria autenticità. In questo entra in gioco la tua capacità come brand journalist: se andare in tv, come, con quale stile editoriale, tutte competenze che i giornalisti e solo loro possiedono. In fondo i giornalisti si sono sempre occupati di questi temi, ma ora le aziende ne hanno un enorme bisogno, perchè la pubblicità non funziona come prima. Questa necessità è sempre esistita, per esempio già negli anni ‘80 con il boom della pubblicità. I prodotti erano equivalenti, si faceva product placement o spettacolarizzazione della pubblicità. Da sempre c’è stata la necessità di inserire la pubblicità in contesti coinvolgenti. Vi ricordate i film degli anni ’80, con il pacchetto di sigarette in evidenza? Erano promozioni molto selvagge all’epoca, poi sono state regolamentate. Allo stesso modo l’importanza di fare brand journalism e avere nel proprio staff interno brand journalists è data per assodato. Tornando ai film, una delle tendenze è il title placement: film che già nel titolo segnalano e promuovono un brand, come ne L’ultimo crodino, ma, per fare un esempio del passato, possiamo citare Colazione da Tiffany. E’ inequivocabile che alcuni elementi contribuiscano al posizionamento aziendale. Attorno al prodotto (o anche alla persona e persino nelle campagne elettorali) c’è una narrazione che deve essere il più possibile coinvolgente e il giornalista interviene in questa dinamica ma con la schiena dritta e mantenendo la verità e i suoi valori morali e deontologici”
Dopo questo libro, hai in previsione un secondo volume?
“In realtà è già pronto un secondo libro, che uscirà l’1 settembre per Franco Angeli: Procurement RiEvolution. L’ho scritto con un esperto del settore, Fabio Zonta, Chief Procurement Officer di Engineering, che parla della rivoluzione della funzione acquisti, che verrà necessariamente messa in funzione apicale negli organigrammi del futuro. Dal Covid, alla guerra, il modello determinato dalla globalizzazione va completamente ridiscusso, per attingere al mercato internazionale con adeguate capacità. Sapersela cavare in situazioni di difficoltà richiede che la figura del cpo, cioè il Chief Procurement Officer- risulti fondamentale, per trovare fonti di approvvigionamento alternative e in tempi brevi. Dalle nostre rispettive esperienze abbiamo messo insieme le competenze e scritto questo libro”
Il mestiere del Brand Journalist è per tutti?
“Non proprio; servono competenze, rigore nella ricerca della verità che rappresenta il primo dovere di ogni giornalista e che anche un brand journalist deve saper mettere in campo, pur lavorando per un’azienda e non per un editore tradizionale. Poi bisogna avere una cultura generale e una formazione trasversale che, unitamente alle capacità empatiche, permettano di caso in caso di calarsi nel caso in questione e aiutare il brand a raccontare in maniera efficace i propri valori. Bisogna soprattutto amare questo ambito, al quale molti giungono come piano-B per via della crisi dell’editoria: se non c’è un’autentica passione per il racconto delle aziende, il prodotto finale ne risente”.
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