Il contributo dell’industria sportiva italiana al Pil e al tasso di occupazione nazionali è ancora troppo basso rispetto alle potenzialità
Non c’è confronto tra le performance degli atleti e delle atlete italiane e le classifiche di rendimento dello Sport italiano in termini di contributo al Pil e all’occupazione. Mentre nuotatori, schermidori, pallavoliste e pallavolisti (per i calciatori e le calciatrici meglio soprassedere per ora in attesa di tempi migliori, ma un Europeo in bacheca lo scorso anno gli Azzurri di Roberto Mancini comunque lo hanno messo) mietono vittorie e salgono puntualmente sui podi delle manifestazioni continentali e/o iridate, l’Italia arranca nelle classifiche economiche e professionali della Ue.
Il quadro continentale
Se è vero che sport in Italia, nel 2019, ha generato un valore di produzione di circa 24,5 miliardi di euro e 420mila occupati, come rilevato nello nello studio dell’Ics (Istituto per il credito sportivo) «Il Pil dello Sport», nella graduatoria relativa al contributo percentuale dello sport al valore del Pil nazionale, l’Italia non va oltre il quattordicesimo posto con l’1,32%. Inarrivabile l’Austria (4,1%) e la Germania (3,9%), l’Italia deve rincorrere anche Polonia, Gran Bretagna e Francia, ma fa persino peggio di di Cipro, Malta, Slovenia, Lussemburgo e Croazia e viaggia sullo stesso livello della Slovacchia. Va ancora peggio nella classifica del contributo dello Sport all’occupazione nazionale. Qui l’Italia dello Sport scivola al diciannovesimo posto con l’1,76%. Anche in questo caso la fanno da padrone Austria e Germania che hanno raggiunto nell’anno prima dello scoppio della pandemia, rispettivamente, il 5,6% e il 4,6. Il Regno Unito pre-Brexit faceva segnare il 3,75%. A superare lo Sport italiano nella capacità di creare posti di lavoro sono tuttavia non solo le Sport Industry di paesi come la Francia e la Polonia, ma anche quelle di Estonia, Cipro, Malta e Lussemburgo.
Le prospettive
Va detto che questi dati, gli utlimi disponibili, elaborati su informazioni rese pubbliche dalla Commissione europea del 2018 risalgono al 2012 (e già questo è sintomo di una sottovalutazione della rilevanza dell’economica sportiva) e, dunque, si spera che nel decennio appena trascorso l’Italia abbia scalato qualche posizione. Anche perchè vanno in controtendenza non solo con le performance agonistiche delle compagini azzurre, ma anche rispetto alle eccellenze che la manifuttura spotiva italiana sa esprimere. A fronte di una platea di aziende dell’industria sportiva inferiore a quella degli altri principali competitor nel Vecchio Continente, le imprese residenti in Italia presentano infatti «sistematicamente nell’ultimo decennio, un valore significativamente più elevato, sia del fatturato sia del valore della produzione industriale per lo sport». In particolare, il valore della produzione dell’industria manifatturiera nel 2019 è stato pari a 3,5 miliardi in Italia, 2,1 in Germania, 1,8 in Francia e 1,1 nel Regno Unito e 0,8 in Spagna.
La pratica sportiva di massa
Il vero vulnus è quello della pratica sportiva di massa che in Italia è ancora troppo al di sotto del potenziale del Paese. A dispetto della lievissima crescita registrata nel 2019 rispetto all’anno precedente della quota di popolazione di almeno tre anni di età che svolge con continuità uno o più sport, questa raggiunge solamente il 26 per cento. Per la popolazione tra tre e 17 anni di età tale quota è invece del 52%, a testimonianza di un’abitudine che si perde nel corso della crescita e per la quale il report dell’Ics parla di una sorta di “malattia giovanile dello sport”. È necessario quindi l’avvio di politiche volta a «innescare un balzo in grado di colmare un evidente ritardo nella pratica sportiva rispetto ai dati europei».
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